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L’esposizione delle banche italiane al rischio emittente dei PIGS

Meno di due anni fa, all’indomani dello scandalo Lehman Brothers, gli Stati e gli organismi finanziari sovranazionali reagirono alla condizione di scarsa liquidità venutasi a determinare nel sistema finanziario predisponendo misure a sostegno dell’economia. In Italia si dette il via ai c.d. Tremonti bond, titoli obbligazionari bancari che, una volta sottoscritti dal Ministero dell’Economia, avrebbero rafforzato il capitale di vigilanza degli istituti di credito al fine di rendere più agevole l’erogazione dei prestiti ai richiedenti.

Al momento, sia pure in maniera marginale e non generalizzata, si assiste ad un aggravamento della situazione: ad entrare in crisi è lo stesso Stato sovrano, incapace di produrre reddito a sufficienza, e di conseguenza la banca che, in ottemperanza ai dettami fissati da Basilea2, ha rafforzato il proprio patrimonio inserendo in portafoglio la “sicurezza” dei titoli di Stato (fonte: IlSole24Ore.com).

E la liquidità utilizzata dalle banche per acquistare bond governativi è stata attinta dalla Bce, secondo un meccanismo che ha permesso agli istituti di finanziarsi a breve termine all’1% ed investire a lungo termine a tassi almeno 3 volte maggiori – a ben vedere, si tratta di una logica per taluni aspetti simile a quella che innescò la crisi americana dei subprime, quando le banche, rifornite di denaro a costo limitato, finanziarono l’acquisto della casa da parte di tanti privati fino allo scoppio della bolla immobiliare.

Con riferimento all’attuale scenario nostrano, per i primi dieci gruppi bancari italiani le attività finanziarie sono costituite al 54% da titoli di debito (fra cui i titoli di Stato, pari a circa 1/3 del totale investito, oltre ad obbligazioni bancarie e societarie), al 31,5% da derivati a scopo speculativo, e al 10% da azioni e quote di fondi comuni d’investimento.

In termini di miliardi di euro, secondo dati parziali, i portafogli delle maggiori banche italiane contengono titoli PIGS – ovvero titoli del debito pubblico emessi da Paesi periferici a rischio nella zona Euro – nella seguente misura modesta, ma soggetta a successivi aggiornamenti: Unicredit (1,6), Intesa Sanpaolo (1,1), Mediobanca (0,4), Monte dei Paschi di Siena (0,35), Banco Popolare (0,24).

Fonte: IlSole24Ore.com

(articolo correlato: http://www.questidenari.com/?p=2689)

(per il bilancio 2010, per il 1° bilancio trimestrale 2011 ed il pagamento a maggio dei dividendi di Unicredit si legga http://www.questidenari.com/?p=4199)

L’effetto Grecia e Paesi periferici su tasso base, cambio e inflazione

In pochi si sono accorti che giorni fa Dubai World ha raggiunto un accordo di rinegoziazione del debito, quello che stava per esplodere a novembre 2009 rischiando di coinvolgere gli attivi delle banche europee e sconvolgere il sonno di quanti pensavano alla seconda versione del fallimento Lehman Brothers.

Allora i mercati azionari di tutto il mondo reagirono assai malamente, così come oggi la volatilità accentuata delle quotazioni scaturisce dalle notizie sull’affidabilità degli Stati sovrani europei che rendono convulse le contrattazioni.

Divisi sulle strategie economiche di integrazione degli Stati membri, solo nel momento di crisi i Paesi europei hanno saputo trovare la via della partecipazione alla realizzazione di meccanismi sovranazionali di garanzia, iniziale avvicinamento ad una politica fiscale concertata che possa procedere assieme alla politica della moneta unica.

Anche la Bce ha iniziato ad apportare sostegno al processo di integrazione, partecipando con l’acquisto di obbligazioni sovrane in cambio di liquidità, e pretendendo l’impegno alla riduzione del deficit pubblico da parte dei Paesi aiutati. La mossa, tuttavia, non aumenterà la quantità di moneta presente nel sistema economico-finanziario perché sarà accompagnata dalle operazioni di sterilizzazione: detti acquisti vengono finanziati attraverso la vendita o l’emissione di altri titoli da parte della stessa Banca Centrale, e le masse monetarie immutate assicurerebbero tutela contro il rischio di repentine impennate dei prezzi.

Al tempo stesso, la domanda interna fiacca degli Stati membri non lascia presagire fenomeni inflazionistici, motivo per cui ci si attende che la Bce persista nel mantenere inchiodato al minimo storico il tasso base; e se dall’altra parte dell’oceano la Federal Reserve dovesse decidere per un incremento dei tassi motivato da previsioni economiche più rosee delle nostre, il differenziale di tasso attirerebbe capitali negli Usa e rafforzerebbe ulteriormente il dollaro contro l’euro, oltre a far sentire il proprio effetto in termini di diminuzione del prezzo delle materie prime.

Fonte: MilanoFinanza.it

Trichet non modifica i tassi. La paura cambia i rendimenti dei titoli di Germania e Grecia

Sempre appropriato al minimo storico dell’1% il costo del denaro; sempre moderata, discontinua ed incerta la ripresa economica; sempre moderata l’inflazione attesa nei mesi a seguire.

Rimane uguale la fotografia che Trichet ed il consiglio direttivo della Bce scattano all’Eurozona da diversi mesi, con la differenza che stavolta il presidente deve sottolineare di non aver trattato compiutamente questioni sul debito degli Stati sovrani, né eventuali procedure di insolvenza (fonte: IlSole24ore.com), ad eccezione dell’esenzione dai requisiti minimi di rating per lo Stato ellenico, con riferimento ai collaterali a garanzia dei prestiti ottenibili dall’istituto centrale.

Al momento, la situazione appare troppo delicata per far scaturire decisioni produttive di effetti sulle politiche governative degli Stati membri, sulle quotazioni delle piazze finanziarie e sul dramma di un popolo che da ieri ha iniziato a contare le proprie vittime della rivolta.

Al centro delle preoccupazioni sta la Grecia, col suo fabbisogno di 150 miliardi di euro fino a tutto il 2012, di cui 8,5 miliardi in scadenza fra meno di 2 settimane. Il piano di aiuti, pur risolvendo il problema più urgente, si basa sull’assunto – forse troppo ottimistico – che nel 2011 Atene possa tornare a finanziarsi sul mercato dei capitali.

Di sentimento opposto, la cancelliera tedesca Angela Merkel – che di fronte al Bundestag ha difeso il piano di sostegno alla Grecia, ma ha pure sollecitato una revisione del Patto di Stabilità dell’Unione Europea che obblighi i Paesi ad un maggiore rispetto dei vincoli di bilancio pubblico – ha affermato che è necessario aiutare lo Stato ellenico perché “ne va del futuro dell’Europa”.

Ciò nonostante, l’isteria si è abbattuta sulle Borse europee originando comportamenti imprevedibili, come sempre accade in queste occasioni: l’euro che sembrava riprendersi per poi farsi sempre più debole nel cambio col dollaro, il barile di petrolio Wti con consegna a giugno sceso questa mattina a 78,87 dollari dopo la caduta di ieri, e, per la prima volta, la manifestazione del fenomeno di decoupling (opposta direzione tra le Borse europee e quelle americane) riguardante il solo “vecchio continente”, col segno meno che colpisce in maggior misura i Paesi periferici rispetto a quelli dell’Europa centrale e della City.

Sul fronte bond, ieri ha continuato ad accentuarsi il divario tra il rendimento dei Titoli di Stato della Germania (prima di risalire, il bund decennale era giunto al 2,88% per la corsa ai beni rifugio) ed il rendimento dei Titoli di Stato della Grecia (salito al 10,27%), conseguenza della paura del “contagio” a cui stamattina anche Moody’s ha contribuito.

L’agenzia di rating internazionale (quella dell’egregio giudizio espresso a favore di Lehman Brothers, il giorno prima che fallisse – ha ricordato oggi l’ex Presidente del Consiglio dei Ministri, il prof. Romano Prodi) ha indicato anche l’Italia, oltre a Portogallo, Spagna, Irlanda e Gran Bretagna, tra i Paesi col sistema bancario a rischio: ne sarebbe causa l’agevole trasmissione delle paure, provenienti dai mercati, per l’abbassamento del rating sovrano, oltre che la minor esposizione al rischio di scoppio delle bolle speculative e agli strumenti finanziari strutturati.

La Grecia fa scendere l’Irs, non cambia l’Euribor e lascia indifferente qualche gestore

Ad eccezione dell’increspatura dell’Euribor registrata il 28 aprile, che ad esempio ha fatto “saltare” il tasso a 6 mesi per motivi tecnici da 0,958% del giorno precedente a 0,964%, i principali saggi di riferimento sono passati indenni per le vicende burrascose dei mercati finanziari sensibili agli ultimi fatti della Grecia. Un importante segnale di stabilità per chi si trova a pagare la rata del mutuo a tasso fisso o variabile, ma anche per chi ha investito i propri soldi in titoli obbligazionari.

L’Euribor, sempre vicino ai minimi storici, collega il proprio andamento senza sobbalzi all’attuale livello di liquidità abbondante nel sistema finanziario, e quindi seguirà le prossime decisioni della Bce in materia di exit strategy.

Ma se l’ultima asta di rifinanziamento a 3 mesi ha fatto registrare un discreto numero di banche (fors’anche elleniche) costrette a rivolgersi all’istituto centrale pagando il denaro almeno l’1%, perché evidentemente non sono riuscite a finanziarsi sul mercato a costi inferiori (0,65% per l’Euribor a 3 mesi, appunto), ciò significa che le operazioni di assorbimento della liquidità da parte dell’Eurotower dovranno essere rallentate, rispetto alla tabella di marcia prevista sino a poche settimane fa, al fine di non rendere ancora più diffidenti fra di loro gli istituti.

Sulla stessa linea, le attese degli operatori di mercato, riflesse nei future sull’Euribor a 3 mesi, indicano una crescita moderata nel tempo sulla via della “normalizzazione”: 0,80% a giugno 2010, 1,04% a dicembre 2010, e trend in crescita che culmina con l’1,72% a fine 2011. Inoltre, aumenta il numero di economisti che confida nel mantenimento dell’attuale costo del denaro (1%) nella zona Euro per tutto il 2010.

Si va ripetendo, in sostanza, il comportamento di indifferenza dei tassi già sperimentato allo scoppio della crisi immobiliare di Dubai, e si può quindi affermare che la situazione attuale non appare drammatica come fu ai tempi di Lehman Brothers: in questo frangente, in un contesto di liquidità abbondante, al centro dell’attenzione è la “spazzatura” costituita dai titoli di Stato della Grecia che sono (semplicemente) “senza valore”, e non sono “tossici” come avvenne in occasione del fallimento della banca d’affari americana, quando molte gestioni patrimoniali con profilo di rischio basso furono inquinate da strumenti finanziari che non avevano ragione di farne parte.

D’altro canto, la fuga dai bond greci verso la sicurezza teutonica (o fly to quality per gli anglofoni) ha fatto sì che il bund venisse raggiunto da un eccesso di domanda in grado di condizionarne prezzi e rendimenti, facendo giungere questi ultimi ai minimi storici; e siccome l’Irs è parametrato al governativo tedesco, anche il riferimento dei tassi fissi applicati in Europa è sceso ai suoi livelli minimi (fonte: Ilsole24Ore.com).

Rassicurati i mutuatari, come devono sentirsi coloro che hanno affidato i propri risparmi ai gestori dei fondi comuni d’investimento obbligazionari?

Qualche gestore già da tempo ha “eliminato” la Grecia, ritenendo il rischio Paese inadeguato al profilo della propria gestione; altri hanno rivisto le posizioni, riducendo la porzione di titoli ellenici; altri ancora hanno lasciato tutto invariato, convinti che il piano di salvataggio della Grecia impedirà il default e, contemporaneamente, permetterà loro di spuntare rendimenti più elevati della media (fonte: IlSole24Ore.com).

A questi ultimi sembra dare ragione la notizia odierna che il premier greco Papandreou ha firmato l’intesa con l’Unione Europea ed il Fondo Monetario Internazionale finalizzata ad evitare la bancarotta.

G20: bonus ai manager e resistenze immotivate (in apparenza)

In questi giorni, i leader riuniti nel G20 a Pittsburgh stanno cercando l’accordo sul tema di shoccante attualità dopo i troppi casi di fallimento dei grandi istituti creditizi, Lehman Brothers in testa.

Nonostante le divergenze sull’argomento provengano proprio, stranamente, da USA e Inghilterra dove la crisi finanziaria ha conosciuto i suoi massimi livelli di intensità, i governanti dei maggiori Paesi al mondo sono intenzionati a collegare i bonus dei top manager ai risultati economici aziendali di lungo termine.

Per gli esperti di Finanza e Controllo di Gestione il concetto inquadrabile nella logica del sistema incentivante è ben conosciuto: si tratta di costituire un fondo alimentato dai risultati economici netti (Economic Value Added) anno dopo anno, e premiare i dirigenti in proporzione ad una percentuale dello stesso fondo:

– 1° anno: Fondo1 = utile/perdita d’esercizio1; Bonus1 = α • Fondo1 se Fondo1 > 0

– 2° anno: Fondo2 = utile/perdita d’esercizio2 + Fondo1; Bonus2 = α • Fondo2 se Fondo2 > 0

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– n° anno: Fondon = utile/perdita d’esercizion + Fondon-1; Bonusn = α • Fondon se Fondon > 0

dove α rappresenta quella percentuale che Francia e Germania vorrebbero tenere cautamente bassa.

La validità dello schema riportato è evidente se si pensa che i dirigenti sarebbero così incentivati ad accrescere la ricchezza aziendale nel medio-lungo termine: infatti, qualora essi volessero, furbescamente, tagliare costi che si collegano a risultati positivi solo a lungo andare (si pensi alle forti spese di Ricerca&Sviluppo), nell’immediato otterrebbero un bonus relativamente basso perché collegato ad un fondo alimentato da poco tempo, e nel lungo termine rischierebbero di non percepire nulla a causa delle perdite conseguenti ai mancati investimenti dei primi anni!

Sorge quindi l’interrogativo: se il metodo per limitare i bonus della finanza è conosciuto da tempo, perché è stato necessario attendere il collasso finanziario di alcuni istituti per tenerlo in seria considerazione? E soprattutto, perché l’accordo è ancora dibattuto?

Una prima risposta è rintracciabile nella peculiarità della limitazione che colpirebbe le sole banche, e non anche aziende appartenenti ad altri settori – si pensi all’industria americana dell’auto e ai miliardi di dollari bruciati negli ultimi anni.

Ma una seconda tesi, che certo mette in ombra questioni di equità sociale nate dalla divergenza tra lo stipendio del capo e quello del magazziniere, pone l’accento sui variegati conflitti di interesse che riguardano i dirigenti lobbysti, capaci di esercitare pressioni influenti sulla sfera politica di molti Stati.

Non da ultimo, il fenomeno di polverizzazione dell’azionariato a cui si è assistito negli ultimi decenni ha determinato l’indebolimento del potere contrattuale – e quindi decisionale – della proprietà nei confronti del soggetto economico, favorendo un processo di selezione della classe dirigente sulla base dell’unico parametro agevolmente controllabile: il profitto. Come è stato per molti falliti, il profitto ad ogni costo.