Archivi categoria: Finanza & Controllo

La misura del rischio finanziario /1 – Significato di Leva Finanziaria

Oltre al rischio tipico delle imprese che si occupano della loro attività caratteristica (misurato dalla Leva Operativa: http://www.questidenari.com/?p=1287), la valutazione del rischio complessivamente affrontato da chi “fa” impresa non può prescindere dall’analisi dei rapporti con le banche.

Molto spesso, almeno nelle realtà industriali minori, non c’è possibilità di effettuare un’analisi “scientifica” sul ventaglio di opportunità (se, dove, quanto, come e a quali condizioni di costo finanziarsi), perché non vi sono spazi di valutazione sulla bontà di un’operazione di finanziamento bancario. Di frequente si verifica, piuttosto, la necessità pura e semplice di attingere a fonti finanziarie di provenienza bancaria al fine di sopperire alla limitatezza delle risorse interne. Questo vale per le imprese nascenti (start-up) come anche per quelle avviate ma in crisi di liquidità che non possono fare affidamento sulle proprie capacità di autofinanziamento.

Le conseguenze della mancata valutazione possono essere anche fortemente invalidanti della corretta gestione d’impresa, specie quando le incomprensioni, i malumori e lo spiazzamento delle aspettative iniziali finiscono per far degenerare i rapporti col sistema creditizio. Ne uscirebbero indeboliti tutti gli attori del sistema economico, ma soprattutto la proprietà delle imprese cui verrebbe negata la possibilità di fare “leva” sulle risorse aggiuntive, messe a disposizione dalle banche, per ottenere un ritorno sugli investimenti propri maggiorato per via del ricorso al credito.

Se lo studio del rischio operativo poneva al centro dell’attenzione le grandezze del Conto Economico che nello scalare si trovano localizzate al di sopra del reddito operativo (http://www.questidenari.com/?p=1022), stavolta il fulcro dell’analisi si sposta nella parte “bassa” dove troviamo – a costo di qualche lieve semplificazione che sacrifica il risultato della gestione accessoria e straordinaria – gli interessi passivi e le imposte.

Le variabili economiche utili alla nostra analisi sono dunque il reddito operativo (RO: derivante dalla differenza tra ricavi e costi gestionali), le componenti negative di reddito degli oneri finanziari (OF) e tributari (OT), ed il reddito netto (RN) che ne deriva per differenza:

[1] RN = RO – OF – OT

(continua http://www.questidenari.com/?p=1481)

La misura del rischio operativo /6 – Esempio concreto di Leva Operativa a costi comuni

Con l’intento di avvalorare la mia tesi – esposta nel precedente articolo http://www.questidenari.com/?p=1213 – riguardo alla necessità di rendere centrale il tema del ribaltamento dei costi comuni prima di procedere all’analisi del grado di leva operativa o del punto di pareggio, mi sembra opportuno fornirvi evidenza di un caso esistente tratto dalla realtà delle imprese industriali del nostro tessuto economico.

I dati seguenti, che ovviamente non specificano la denominazione sociale o altri caratteri distintivi dell’impresa in questione per motivi di tutela della riservatezza, si riferiscono ad un’azienda (costituita nella forma di società di capitali ed operante nel settore agroalimentare) che esercita attività di acquisto e vendita del prodotto α, ed attività di produzione e vendita del prodotto β nell’esercizio 2008. La situazione che appare dalle scritture d’obbligo al 31.12 relativamente alla differenza tra valore e costi della produzione, pur in presenza di talune semplificazioni che non inficiano la validità delle cifre espresse in euro, è la seguente:

Tav. 6: Conto Economico dell’azienda X (COGE)

Tav. 6: Conto Economico (contabilità generale)

Il passaggio dalla contabilità generale (COGE) alla contabilità analitico-gestionale (COA) evidenzia che le voci A1 e B6 rappresentano componenti variabili del reddito d’impresa in ragione dell’aumentare dei volumi produttivi, rispettivamente ricavi totali (RT) e costi variabili totali (CVT), e al tempo stesso sono imputabili direttamente alle due produzioni α e β (come esposto in Tav. 7).

Le altre voci necessitano di specificazioni:

–        tra i servizi (B7) sono compresi i costi variabili diretti di trasporto del prodotto β (103.392). I rimanenti costi per pubblicità (106.800), polizza assicurativa del fabbricato (4.000), utenze telefoniche ed energia elettrica (8.400) sono costi comuni (CFc) ad entrambe le produzioni che per semplicità vengono considerati fissi (in realtà, “utenze telefoniche ed energia elettrica” sono costi semi-variabili)

–        i costi per godimento beni di terzi (B8) rappresentano l’affitto per il capannone, costo fisso e comune (CFc)

–        i costi per il personale (B9-a) comprendono i salari degli addetti alla produzione β, pertanto considerati costi fissi e diretti (CFd = 300.000), e gli stipendi del personale amministrativo, costi fissi e comuni (CFc = 109.200)

–        tra i costi per ammortamento (B10) sono compresi quelli per lo specifico macchinario dedicato alla produzione β, costo fisso e diretto (CFd = 53.500), e gli ammortamenti per impianti generici (CFc = 821.058) ed automezzi (CFc = 3.600), entrambi costi fissi e comuni.

Tutto ciò è sintetizzabile nel seguente schema a costi diretti in cui il prodotto (α e β) è posto come oggetto di controllo:

Tav. 7: margini di prodotto a direct costing (COA)

Tav. 7: margini e leva operativa a direct costing (contabilità analitica)

Appare evidente che il prodotto β contribuisce (MCN) al profitto operativo (RO) in misura più cospicua rispetto all’altra produzione, e si associa ad un grado di rischio operativo (LO) abbastanza vicino a quello di α (β farebbe ottenere circa 2 punti percentuali di reddito in più, o in meno, rispetto ad α in caso di una variazione delle vendite nell’ordine del 10%).

Successivamente, l’imputazione dei costi comuni alla produzione β nella misura dell’80% dell’importo totale, dovuta alla scelta della chiave di riparto semplice “ore lavoro” comprensiva delle ore di impiego complessive degli operai e del personale amministrativo, rovescia il giudizio sulla bontà delle due produzioni (Tav. 8): il prodotto α, nello schema a costo pieno, non solo presenta un 2° margine (RO) superiore all’altro, ma mostra pure di avere un grado di rischio (LO) pari circa alla metà di quello del prodotto β.

A questo punto, soltanto dopo l’opportuna considerazione di tutte le componenti di costo operativo, ivi comprese quelle non imputabili attraverso un nesso di causalità diretta, il management sa che dovrà attivarsi per realizzare la semplificazione operativa dell’output β.

Tav. 8: margini di prodotto a full costing (COA)

Tav. 8: margini e leva operativa a full costing (contabilità analitica)

La misura del rischio operativo /5 – Leva Operativa e costi comuni

Tutti gli esempi sinora analizzati riguardo alle possibili utilizzazioni dello strumento Leva Operativa (http://www.questidenari.com/?tag=leva-operativa) hanno fatto riferimento a casi di scuola volutamente basilari (Tav. 1, Tav. 2 e Tav. 3).

Più raramente i manuali tecnici e le riviste specializzate si riferiscono ad aziende multiprodotto, ovvero ad imprese che sostengono costi operativi comuni a più produzioni.

Nella realtà aziendale questo problema è molto sentito, perché il contesto globale induce le imprese a confrontarsi con l’abbattimento e l’imputazione dei “costi della complessità”, così definiti perché legati allo sviluppo organizzativo e produttivo di una struttura chiamata a creare output sempre più differenziato ed appetibile per il mercato.

In questo senso, valutare il rischio operativo per ogni prodotto significa procedere all’imputazione dei costi non diretti (oggetto di controllo nella fattispecie: il generico prodotto) al fine di stimare il totale dei costi operativi facenti capo all’unità organizzativa che si occupa del bene stesso.

Il problema non è di poco conto soprattutto se si riflette sull’attenzione con cui la stessa metodologia d’imputazione – sia essa tradizionale o innovativa – debba essere applicata per la risoluzione di altri problemi gestionali, a partire da quello cruciale della conoscenza del Break Even Point.

Riprendendo l’esempio dell’esercizio n in Tav. 1, se  procediamo a separare i costi e i ricavi diretti delle due produzioni A e B, e a scorporare i costi fissi in diretti e comuni, potremo verificare la seguente situazione:

Tav. 4

Tav. 4 leva operativa a direct costing

Come si nota, i due prodotti contribuiscono in diversa misura al profitto aziendale e al rischio dell’attività prima dell’imputazione dei costi comuni (CFc): nonostante la sostanziale equivalenza in termini di ricavi (RT) e di 1° margine (MCL), il bene B – prodotto di nicchia (q = 30) dal prezzo più elevato (p = 1,7) – presenta un 2° margine (MCN) più alto ed un grado di leva operativa (LO) più basso rispetto al prodotto A. Se l’analisi fosse limitata a livello “direct costing”, dovremmo concludere a favore del prodotto B.

Tuttavia, proprio per le caratteristiche descritte, il prodotto B assorbe una proporzione maggiore di costi comuni operativi (CFc) che ipotizziamo nella misura di 7 degli 8 totali a seguito di applicazione del metodo Activity Based Costing:

Tav. 5

Tav. 5: leva operativa a full costing

L’analisi a “full costing” manifesta che il contributo dei due prodotti al reddito operativo è praticamente lo stesso (24,9 contro 25,1), e che il bene B si associa a maggiori rischi operativi (1,42 contro 1,37). E’ appena il caso di farvi notare che il nuovo calcolo della Leva Operativa (Tav. 5) ha fornito due valori maggiori dei precedenti (esposti in Tav. 4) per A e B, dato che vi è stato un incremento dei costi fissi (http://www.questidenari.com/?p=1169).

L’imputazione dei costi comuni, su cui ha influito la decisione soggettiva del controller, ha complicato parecchio le idee di coloro che devono intervenire sulle variabili del sistema, se non proprio sovvertito il giudizio formulato inizialmente sulla bontà delle produzioni aziendali.

Ma di certo, e questo era lo scopo, il mio contributo ha dimostrato che il tema dell’attribuzione dei costi non diretti, di capitale importanza, deve emergere con maggiore insistenza nelle pubblicazioni degli esperti in materia, non essendo più ammissibile il ricorso a tecniche di analisi dei costi che ignorino le conseguenze della globalizzazione quando usate per l’interpretazione di un modello di business monoprodotto inadeguato sotto il profilo decisionale.

(continua http://www.questidenari.com/?p=1287)

G20: bonus ai manager e resistenze immotivate (in apparenza)

In questi giorni, i leader riuniti nel G20 a Pittsburgh stanno cercando l’accordo sul tema di shoccante attualità dopo i troppi casi di fallimento dei grandi istituti creditizi, Lehman Brothers in testa.

Nonostante le divergenze sull’argomento provengano proprio, stranamente, da USA e Inghilterra dove la crisi finanziaria ha conosciuto i suoi massimi livelli di intensità, i governanti dei maggiori Paesi al mondo sono intenzionati a collegare i bonus dei top manager ai risultati economici aziendali di lungo termine.

Per gli esperti di Finanza e Controllo di Gestione il concetto inquadrabile nella logica del sistema incentivante è ben conosciuto: si tratta di costituire un fondo alimentato dai risultati economici netti (Economic Value Added) anno dopo anno, e premiare i dirigenti in proporzione ad una percentuale dello stesso fondo:

– 1° anno: Fondo1 = utile/perdita d’esercizio1; Bonus1 = α • Fondo1 se Fondo1 > 0

– 2° anno: Fondo2 = utile/perdita d’esercizio2 + Fondo1; Bonus2 = α • Fondo2 se Fondo2 > 0

………………………………………………………………………………………………

– n° anno: Fondon = utile/perdita d’esercizion + Fondon-1; Bonusn = α • Fondon se Fondon > 0

dove α rappresenta quella percentuale che Francia e Germania vorrebbero tenere cautamente bassa.

La validità dello schema riportato è evidente se si pensa che i dirigenti sarebbero così incentivati ad accrescere la ricchezza aziendale nel medio-lungo termine: infatti, qualora essi volessero, furbescamente, tagliare costi che si collegano a risultati positivi solo a lungo andare (si pensi alle forti spese di Ricerca&Sviluppo), nell’immediato otterrebbero un bonus relativamente basso perché collegato ad un fondo alimentato da poco tempo, e nel lungo termine rischierebbero di non percepire nulla a causa delle perdite conseguenti ai mancati investimenti dei primi anni!

Sorge quindi l’interrogativo: se il metodo per limitare i bonus della finanza è conosciuto da tempo, perché è stato necessario attendere il collasso finanziario di alcuni istituti per tenerlo in seria considerazione? E soprattutto, perché l’accordo è ancora dibattuto?

Una prima risposta è rintracciabile nella peculiarità della limitazione che colpirebbe le sole banche, e non anche aziende appartenenti ad altri settori – si pensi all’industria americana dell’auto e ai miliardi di dollari bruciati negli ultimi anni.

Ma una seconda tesi, che certo mette in ombra questioni di equità sociale nate dalla divergenza tra lo stipendio del capo e quello del magazziniere, pone l’accento sui variegati conflitti di interesse che riguardano i dirigenti lobbysti, capaci di esercitare pressioni influenti sulla sfera politica di molti Stati.

Non da ultimo, il fenomeno di polverizzazione dell’azionariato a cui si è assistito negli ultimi decenni ha determinato l’indebolimento del potere contrattuale – e quindi decisionale – della proprietà nei confronti del soggetto economico, favorendo un processo di selezione della classe dirigente sulla base dell’unico parametro agevolmente controllabile: il profitto. Come è stato per molti falliti, il profitto ad ogni costo.

La misura del rischio operativo /4 – Outsourcing

Sinora abbiamo considerato i cambiamenti nello schema di base – costituiti dalle variazioni delle vendite (http://www.questidenari.com/?p=1198) e dei costi fissi (http://www.questidenari.com/?p=1169) – come esogeni all’azienda, frutto della stagionalità della domanda o indotti dalle caratteristiche intrinseche del settore economico di appartenenza.

Vediamo adesso come lo strumento della Leva Operativa possa tornare utile al management quando si presenta la possibilità di decidere tra una strategia di internalizzazione ed una di esternalizzazione. Entriamo, cioè, nel campo delle scelte operative.

Per semplicità, non vi esporrò le definizioni di costi sorgenti e costi cessanti, come non vi tedierò rispolverando la vecchia teoria tayloristica.

Vi renderò soltanto l’idea di un’azienda che, attraverso l’utilizzo di macchinari e capannoni di valore ingente, produce internamente beni trasformati da materie prime ottenute a condizioni scontate e lavorate da manodopera esperta in grado di ottimizzare la resa e minimizzare i tempi (Hp 1: internalizzazione).

In alternativa, la stessa azienda, con le stesse prospettive di mercato, potrebbe “liberarsi” di una parte dei costi operativi, come l’affitto del magazzino e i costi d’acquisto delle materie prime, comprando forniture esterne – ovviamente a condizioni più onerose rispetto a quelle della produzione interna – per sopperire alla limitatezza dei propri volumi produttivi conseguente alla scelta descritta (Hp 2: outsourcing).

Questi brevi cenni lasciano intuire che, nella prima ipotesi, l’azienda avrà costi fissi elevati e costi variabili bassi, mentre nella seconda ipotesi registrerà una situazione opposta.

Riprendendo l’esempio di base riferito all’esercizio “n” e riportato in Tav. 1, di cui vi lascio inalterato il profitto per entrambe le ipotesi, avremo il seguente schema:

Tav. 3

Tav. 3: leva operativa e outsourcing

Se limitassimo l’orizzonte di valutazione al reddito operativo (RO) non sapremmo preferire una strategia all’altra, dato che entrambe conducono allo stesso risultato; ma se ci poniamo di fronte a questo esempio con atteggiamento analitico, allora ci accorgiamo che, in caso di esternalizzazione, l’azienda andrebbe incontro a minori rischi operativi (Leva Operativa più bassa per Hp 2) cautelandosi da un eventuale indebolimento della domanda di mercato (12% in meno di profitto, anziché 14%, per un calo delle vendite del 10%).

La scelta della strategia da perseguire, ovviamente, spetta ai dirigenti che potrebbero anche preferire l’ipotesi della produzione interna per motivi legati alle loro attese ottimistiche sulla domanda. Anche il management, come avrete capito, si assume dei rischi svolgendo il proprio lavoro: fra questi, c’è il rischio di quantificare in maniera errata l’aumento del costo variabile derivante dall’abbattimento del costo fisso. Detta pratica, nella realtà aziendale, è assai più impegnativa di quella esemplificata su un foglio di calcolo elettronico …….

(continua http://www.questidenari.com/?p=1213)

La misura del rischio operativo /3 – Internalizzazione

Per rispondere al 1° quesito (http://www.questidenari.com/?p=1198) sulla causa che rende il reddito operativo più o meno sensibile al mercato, occorre rielaborare la formula iniziale della Leva Operativa facendo uso delle definizioni di Margine Contributivo Lordo (MCL) e Margine Contributivo Netto (MCN).

Il MCL (anche detto “1° margine” perché ne scaturisce la prima delle scelte operative) è pari alla differenza tra ricavi e costi variabili, mentre il MCN (anche detto “2° margine”) è pari al MCL al netto dei costi fissi (e diretti, per la precisione), ovvero coincide col reddito operativo nel nostro caso.

Ebbene, a parità di condizioni, un’azienda che presenta una struttura dei costi più rigida, ovvero costi fissi più elevati, manifesta pure una più alta sensibilità alle vendite! E’ il caso delle aziende capital intensive, cioè quelle “obbligate” ad investire fortemente in immobilizzazioni e che quindi si trovano maggiormente esposte ai rischi di un mercato in contrazione, ma che (al contrario) beneficiano in più grande misura della produzione interna venduta al momento della ripresa degli ordinativi.

Colgo l’occasione per rammentarvi che il concetto di rischio non va inteso nella sola accezione negativa, bensì nel senso statistico della variabilità – positiva o negativa – dei risultati attorno al loro valor medio!

Riprendiamo l’esempio numerico già esposto in Tav. 1, ed ipotizziamo di raddoppiare i costi fissi:

Tav. 2

Tav. 2: leva operativa e internalizzazione

Come si osserva dalla Tav. 2, lo stesso incremento dei ricavi nella misura del +10%, già ipotizzato nel 1° esempio, stavolta conduce ad aumentare i profitti del 23% ! contro il vecchio 14%.

La spiegazione è di ordine matematico: se con alcuni passaggi algebrici (che vi risparmio: non voglio annoiarvi a sommare e sottrarre le stesse quantità, moltiplicare e dividere, raccogliere e semplificare) trasformate la formula iniziale della Leva Operativa facendo uso delle definizioni dei margini contributivi, avrete:

LO = MCL / MCN, o anche LO = MCL / (MCL – CF)

Per gli scettici: MCL/MCN fa sempre (100-30)/30 = 2,3 per la Tav. 2, come faceva sempre (100-30)/50 = 1,4 per la Tav. 1.

Se in queste ultime espressioni provate ad aumentare i costi fissi (CF), il denominatore (diminuito) farà aumentare la Leva Operativa! Ergo: più costi fissi, più rischi operativi; meno costi fissi e meno rischi operativi.

La stessa spiegazione matematica dei costi fissi, stavolta formalizzata in termini grafici, prevede che siate (voi!) amanti del disegno tecnico: su un sistema di assi cartesiani con le quantità in ascissa ed i valori economici in ordinata, disegnate la semiretta dei ricavi totali, quella dei costi totali e quella dei profitti: divertitevi ad aumentare (o diminuire) le vendite nelle 2 ipotesi – a costi fissi iniziali e raddoppiati – e registrate le variazioni di reddito operativo.

Infine, per chi non se ne fosse accorto, ho già risposto al 2° quesito sulla necessità di disporre di 2 schemi consecutivi di Conto Economico: facendo uso del MCL, evidentemente la risposta è NO.

(continua http://www.questidenari.com/?p=1127)