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Bacchino malato: la debolezza fisica e la forza artistica di Caravaggio

Non è dato sapere con certezza se l’opera “Bacchino malato” raffiguri nel periodo di ricovero presso l’ospedale di Santa Maria della Consolazione il giovane pittore Michelangelo Merisi, assalito da una grave malattia e senza denari secondo la citazione di Giovanni Baglione suo principale biografo. Il ricovero degli umili, nella Roma di fine ‘500 circondata da paludi malariche e ridotta a centomila anime, accolse e guarì Caravaggio giunto da Milano povero e poco più che ventenne, e l’episodio – soltanto nel XX° secolo – indurrà lo studioso Roberto Longhi a denominare così il quadro.

Quello che è considerato l’autoritratto dell’Artista, atipico per la postura, ispira un umano senso di tenerezza per l’espressione sofferta di un giovane convalescente ma desideroso di declamare le proprie doti pittoriche raffigurandosi come Bacco, dio del vino e dell’ispirazione artistica. Con un debole sorriso e con occhi grandi e timidi, questo giovane dallo sguardo intenso sembra voglia comunicarci il suo attaccamento alla vita, mentre protegge con la schiena inarcata e stringe fra le mani un grappolo d’uva di evidente prosperità.

La potenza naturalistica della pittura di Caravaggio (http://www.questidenari.com/?tag=caravaggio) esplode nella freschezza delle foglie d’edera che compongono la corona sui capelli, nella succulenza del grappolo d’uva bianca ed ancora nella lucentezza dell’uva e delle pesche sul tavolo, caratteri vitali rafforzati dal contrasto coi colori insalubri dell’incarnato, esempi lampanti delle sue capacità magistrali di ritrarre dal vero per suggerire un duplice – o forse triplice – significato esplicativo dell’opera.

Anziché sotto una chiave di lettura pagana, se il quadro venisse interpretato in senso cristiano sarebbe agevole rintracciare nelle opposte colorazioni dell’uva i simboli della vita e della morte, ed individuare nel protagonista il Cristo risorto che, con la gamba sinistra alzata, esce dalla tomba simboleggiata dal tavolo in pietra.

Appartenente alla Galleria Borghese di Roma, l’olio su tela denominato “Bacchino malato” (1592?) proviene dalla confisca delle opere subìta nel 1607 dal pittore detto “Cavalier D’Arpino” (http://www.questidenari.com/?tag=giuseppe-cesari). Giuseppe Cesari fu tra i primi ad offrire lavoro a Caravaggio giunto a Roma ma dopo circa un mese di apprendistato, per motivi di incompatibilità caratteriale, il giovane Merisi se ne andò lasciando l’opera nella bottega del Maestro.

Davide con la testa di Golia: il pentimento di Caravaggio

Dipinto nel 1610 ed oggi appartenente alla Galleria Borghese di Roma, forse il “Davide con la testa di Golia” entrò a far parte della trattativa per l’ottenimento della grazia: così troverebbe motivazione la grossa somma di denaro versata a titolo di cauzione da Michelangelo Merisi al fine di sottrarsi all’arresto per errore, recuperare l’opera tra i bagagli dell’imbarcazione che lo aveva condotto da Napoli alle coste laziali, e destinare la stessa opera al cardinale Scipione Borghese.

Di sicuro ultima grande manifestazione della potenza espressiva di Caravaggio diretto a Porto Ercole dove troverà la morte, il dipinto sintetizza molte delle caratteristiche già apprezzate del Maestro milanese, e nel contempo si presta ad una profonda interpretazione psicologica non propriamente agevole.

Sono presenti la luce che investe trasversalmente ed essenzializza il corpo del giustiziere (http://www.questidenari.com/?tag=luminismo-caravaggesco) emerso dall’ombra, la mancanza di uno sfondo, il simbolo negativo di Golia che assume i lineamenti di Caravaggio, sfigurato ed orrido nella rappresentazione realistica del macabro trofeo.

Ad una prima osservazione del dipinto, l’attenzione si sofferma sulla testa dello sconfitto con gli occhi strabici e fuori dalle orbite, la bocca spalancata e la ferita sulla fronte che riconducono alle comprensibili ansie patite dal pittore per la condanna a morte inflittagli dal papa, e che già aleggiavano nell’atmosfera cupa delle precedenti opere (http://www.questidenari.com/?p=2181), o addirittura si collegano ai ripetuti ferimenti per il riconoscimento e le aggressioni subìte dalle guardie e dai sicari.

Eppure, un’ulteriore e più approfondita lettura fanno riflettere sul vero fulcro della rappresentazione rintracciabile nell’espressione del volto di Davide, un giovane che non appare orgoglioso o iracondo ma triste e pacato, intento nella pia esecuzione di un volere superiore, demandato ad un incarico più grande della sua grandezza interiore vincente sulla forza fisica del gigante.

Caravaggio si offre ai propri giudici e giustizieri nell’atto di riconoscere il proprio errore ed accettare la volontà della giustizia terrena, da cui si congeda preannunciando la propria fine.

Anch’esso di attribuzione certa (http://www.questidenari.com/?tag=scuderie-quirinale), il “Davide con la testa di Golia” può essere ammirato a Roma presso le Scuderie del Quirinale.

La Cattura di Cristo: una scena di ordinaria violenza per Caravaggio

Consegnato alla storia come traditore per la somma di 30 denari, cui neppure la morte per suicidio potrà riabilitarne la figura, né tantomeno i tentativi di giustificarne l’azione esecrabile ma necessaria alla resurrezione di Gesù, momento cardine per la cristianità, Giuda entra nel pieno dell’azione raccontata da uno dei dipinti più celebrati del genio di Caravaggio.

Oggi conservato a Dublino presso la National Gallery of Ireland, la “Cattura di Cristo” del 1602 stupisce per la compiutezza dell’esecuzione tecnica con cui Michelangelo Merisi seppe delineare i tratti dei modelli scelti restituendo la loro immagine riflessa dagli specchi. Qui ne costituisce massimo esempio la lucentezza delle corazze metalliche dei soldati, in particolare quella del personaggio collocato al centro: molto lodato dalla critica del tempo, la magnificenza della sua descrizione sembra farlo emergere dal quadro, quasi a renderlo animato.

Caravaggio coglie l’attimo della scena culminante con la cattura di Gesù, e si dimostra in possesso di una capacità “fotografica” nel descrivere con crudo realismo la violenza usata materialmente dal guerriero in armi che oltraggia Cristo, raffigurato con espressione afflitta, quasi travolto. Lo stesso Giuda è partecipe della violenza perpetrata, nell’atto di abbrancare Cristo e simulare il famigerato gesto.

Il pittore milanese sintetizza in pochi tratti mirabili la presenza esistenziale dei protagonisti, alcuni con i visi illuminati dalla grazia divina e volti a noi, altri immersi nella penombra e girati di profilo o quasi di spalle (http://www.questidenari.com/?p=1806), senza che su di essi abbia alcun effetto il lume sollevato sul fondo della scena, fatto eccezionale per l’Artista che per la prima volta introduce la fonte di luce internamente al quadro stesso.

Caravaggio ci descrive una scena di equilibrio instabile, attraversata da una forza invisibile che, interna alla catena umana, “sposta” il Cristo ed “esplode” nelle urla disperate del personaggio di sinistra, il cui volto illuminato traspone partecipazione al dolore di Gesù.

Come già era accaduto per la realizzazione di altre opere, alla scena desolante assiste lo stesso Maestro con l’espressione attonita dell’autoritratto collocato all’estrema destra, dove scopriamo tutto il travaglio interiore di un uomo dalla personalità contrastata e dal carattere irascibile, incline alla violenza che segnò la sua vita difficile sin dagli anni della giovinezza.

Ma forse, senza le scelleratezze che tormentarono la mente di Caravaggio e contribuirono alla conclusione prematura della sua esistenza, egli non sarebbe stato in grado di trasferirci emozioni uniche.